Di Osvaldo non si può certo dire che sia stato un innovatore tattico. Eppure pochi uomini del calcio, come Bagnoli, hanno saputo emergere esprimendo l’importanza del proprio lavoro, quello di allenatore operaio.

Smentire l’attestazione  che vedrebbe ininfluente lui come tecnico, senza la presenza di adeguati fuoriclasse, sarebbe una bugia grossolana.

Il Verona 1984-85, ultimo baluardo del Pandoro della storia all’esclusiva élite metropolitana dello scudetto, che non aveva nel suo contenitore fuoriclasse, ma un gruppo di discreti calciatori, nessuno dei quali, oltre quella parentesi, ha poi annoverato in carriera grandi conquiste da vetrina europea o mondiale non è stato un vicolo cieco, ma ciò che Bagnoli sapeva trasmettere.

Osvaldo della berretta da Vinitaly, con quel suo fare ammiccante e riservato, riuscì a portare l’Hellas allo scudetto, dentro l’Arena della “lirica”superando rivali che i fuoriclasse di quel periodo, tanto per citarne due Maradona e Platini’.

Osvaldo Bagnoli è stato un tecnico come un guidatore di trattore, ma nel senso migliore del termine. Niente a che vedere con certi stupidi saperi calcistici di provincia dove tutti sanno tutto.

Piuttosto, va anche premiato per sua la perenne fedeltà alle umili origini, portata come una coppa al pari dell’etichetta vagamente ironica applicatagli all’epoca dei primi successi in Serie A: “il mago della Bovisa”.

Alla Bovisa, quel quartiere proletario di Milano, dove era nato e al sapore schietto degli anni giovanili, spesi a giocare a pallone con gli amici a piedi nudi sul prato, senza mai dimenticarsi che era figlio di genitori operai.

Osvaldo Bagnoli, tra una corsa e l’altra come mezz’ala arrivò al Milan grazie a un talent scout di cognome Malatesta. Era dotato di una buona tecnica, ma il Milan dei Liedholm, Schiaffino non poteva dargli che uno spazio ridotto, sufficiente tuttavia per la firma sotto lo scudetto del 1956-57.

Dopo la maglia rossonera (un sogno indossarla) ci furono tre stagioni a Verona, una all’Udinese, tre al Catanzaro, tre alla Spal, una ancora all’Udinese prima della chiusura da libero e cinque stagioni di fila nel Verbania, in C, a far da chioccia a numerosi giovani talenti.

Appesi gli scarpini al chiodo da calciatore, Bagnoli inizio’ a calzare quelli del mister.

Aveva ancora qualche amico, come Pippo Marchioro, compagno di strada nel Milan e poi a Catanzaro, che lo chiamò nel Como, in Serie B.

Qui Bagnoli si applicò anche ai giovani e con tanto entusiasmo da rifiutare l’anno dopo di seguire Marchioro al Cesena. La cittadina romagnola la ritroverà poi in seguito.

Fu la svolta della carriera, perché quando il tecnico in prima, Beniamino Cancian, venne esonerato dopo dodici giornate, i dirigenti lariani pensarono proprio a lui.

Il Como navigava in brutte acque e il nuovo allenatore non ne cambiò il destino, tuttavia i quindici punti in diciotto partite convinsero i dirigenti a insistere ancora su Osvaldo per la stagione successiva.

Sesto posto in B, seguito l’anno dopo a Rimini da una salvezza col sapore della grande impresa.

Quando gli arrivò la chiamata del Fano, in C2, non ritenne di dover fare troppo il difficile.

In fondo, il mestiere gli piaceva e non c’era bisogno di coltivare ambizioni per farlo bene. Invece a Fano inserì la presa diretta.

Colse il primo posto e la C1, guadagnandosi il ritorno in B e questa volta proprio a Cesena, dove prima sfiorò e poi mise a segno il salto in A con la Romagna bianconera dentro un’Epopea.

Osvaldo in riva al Savio fu un motivatore di uomini, di giocatori quasi sconosciuti e di ragazzi provenienti dal settore giovanile, sapeva di ognuno quale tasto toccare per spingerlo verso il meglio. Di solito le sue squadre partivano piano, per poi carburare grazie ai suoi meticolosi ritocchi e chiudere alla grande.

Non ero ancora iscritto all’ordine dei giornalisti, ma scrivevo per passione qualche interviste per “Forza Cesena”, il giornale ideato da mio padre.

Ricordo una semplice domanda. Cosa significa per Osvaldo allenare?Mi spiego così la propria filosofia di questo sport che amava in modo sentimentale: “Il calcio è un gioco semplice, non sono indispensabili troppe teorie astratte come la zona o il pressing.

L’importante è avere la fortuna di trovare gli uomini giusti per metterli poi nei posti giusti; lasciandoli liberi di esprimersi”.

Non troppo tempo fa prima di allontanarsi dal calcio rilascio’ una dichiarazione toccante: “Io sono un uomo fortunato, perché ho giocato a pallone e ho potuto mettere da parte qualcosina.

Se io oggi sono un pensionato sereno, lo devo al calcio.

La mia vita è stata molto impegnata e, se tornassi indietro, forse cercherei di trovare qualche spiraglio per il tempo libero.

Oggi che di tempo ne ho, capisco quanto è importante.

Ma non parlatemi di sacrifici, per favore. I sacrifici, quelli veri, li fanno gli operai e le persone che arrivano a tardi età come me…”

Il Direttore editoriale Carlo Costantini – Foto Vittorio Calbucci

Il Direttore Editoriale Carlo Costantini

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