Stirare, stirare, stirare. Ecco che inizio un’altra danza con l’asse da stiro, un palcoscenico domestico dove si intrecciano le storie di ognuno di noi, di queste maglie, pantaloni, lenzuola, calzini e mutande. Quante volte ho pensato che ogni piega, ogni colpo di ferro, sia un piccolo atto di ribellione, un tentativo di domare il caos che ci circonda. Qui, tra il profumo di detersivo e il calore del ferro, si snodano i fili invisibili di una vita che non sempre sembra mia.

Mio marito, sempre impegnato con il lavoro, come se il suo valore fosse misurato dal numero di ore passate in ufficio. E io? Io sono la regina di questo regno in miniatura, ma la mia corona è fatta di stoffa stropicciata e il mio scettro è un ferro da stiro. Ogni pantalone che piego è una piccola conquista, un gesto di cura e amore che spesso passa inosservato. Ma chi lo vede? Chi riconosce il mio sforzo? La società? Ah, no. Siamo invisibili, noi donne, sempre pronte a sacrificare il nostro tempo, la nostra ambizione, per il bene della famiglia. Eppure, in questo atto quotidiano, si nasconde una lotta silenziosa.

I miei figli, adolescenti che si affacciano al mondo, con le loro idee e le loro ribellioni. Loro, con le loro maglie sporche e i loro pantaloni strappati, mi ricordano che il mondo là fuori è complesso, che la giustizia sociale è una questione di cui parlare, eppure qui dentro, nella mia casa, mi sento intrappolata in un ciclo che sembra non avere fine. Le mutande, simbolo di intimità, mi fanno pensare a quanto poco si parli di noi, delle donne, delle nostre vite. Siamo sempre in secondo piano, come se il nostro ruolo fosse solo quello di supporto, di sostegno, mentre il mondo va avanti senza di noi.

E mentre stiro, rifletto su quanto sia politico questo gesto. Ogni piega che elimino è un piccolo passo verso l’autonomia, verso la rivendicazione di uno spazio tutto mio. Ma poi, mi chiedo, cosa significa essere una donna lavoratrice in questo contesto? La necessità di lavorare per contribuire al bilancio familiare mi assorbe, mentre la casa diventa un campo di battaglia tra aspettative e realtà. La mia carriera, le mie ambizioni, tutto messo in pausa per la cura di chi amo. È giusto? È equo? Eppure, non posso fare a meno di sentire una certa soddisfazione, un senso di realizzazione nel prendersi cura degli altri. Ma a che prezzo?

Oh, come mi sento divisa: tra l’amore e il dovere, tra il sogno di una vita oltre queste pareti e la realtà di un’esistenza che si snoda tra lavatrici e stoviglie. Mi piacerebbe urlare, farmi sentire, ma per ora, il mio urlo si traduce in un colpo di ferro, in un gesto di cura. E mentre guardo i vestiti piegati, ordinati, mi rendo conto che, in fondo, ogni piega è anche una piccola rivendicazione. Una rivendicazione di spazi, di diritti, di un riconoscimento che meritiamo. Siamo qui, ci siamo sempre state, e mentre il mondo fuori cambia, io rimango, con il mio ferro da stiro, a tessere la trama di una vita che merita di essere ascoltata.

A cura di Marco Benazzi editorialista – Foto Imagoeconomica

Editorialista Marco Benazzi

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