ESPRESSI TELEGRAMMI LETTERE MANIGLIA PORTONE BUCA PER LETTERE

Quando la gente mi ferma per strada per chiedermi un selfie, essendo rimasto l’ultimo custode della città che alberga in una struttura pubblica, e ogni volta che accenno un sorriso davanti all’obbiettivo mi sento come un Panda rosso, in sostanza un animale in via d’estinzione, spesso mi chiede cosa significhi vivere in un teatro e soprattutto, cosa si prova quando la sera lo si prepara per la notte.

Alle migliaia di curiosi, racconto sempre la stessa storia che oggi voglio raccontare anche a voi. Partiamo.

C’era una volta, nel cuore di una città che si credeva eterna, un custode teatrale di nome Ildebrando, noto per la sua particolare usanza di chiudere, con scrupolosa precisione, ogni porta e ogni finestra del grande teatro in cui lavorava. Questo rito quotidiano non era soltanto una questione di sicurezza, bensì un atto carico di significati che avrebbero fatto arrossire anche il più astuto dei filosofi.

Dal punto di vista psicologico, Ildebrando sapeva bene che il teatro non è solo un edificio: è un mondo interiore dove le emozioni danzano come ballerini frenetici. Chiudere le porte e le finestre significava isolarsi da tutte le assurdità del mondo esterno, come le urla della folla o i dibattiti politici molesti. Mentre chiudeva il sipario tagliafuoco con un tonfo che risuonava nel suo cuore solitario, Ildebrando sentiva di avvolgere quel luogo magico in una bolla protettiva.

In quel silenzio surreale, stava a proclamare: “Qui dentro ci sono sogni!” Con ogni serratura che scattava nei palchi e nei camerini, egli sosteneva la fragilità dell’immaginario umano.
Ma ciò che taluni ignoravano era la sua intuizione politica. In un’epoca in cui dibattiti ideologici infiammavano le strade e i caffè della città come fuochi d’artificio con lo sparo ritardato, Ildebrando sapeva bene che il teatro doveva rimanere al riparo dalle tempeste politiche.

Chiudere ogni finestra rappresentava una barricata contro il disordine delle menzogne e delle promesse vuote. “Un palcoscenico”, sosteneva, “è il luogo della libertà!”, lontano dai tumultuosi assalti delle elezioni o dalle agitate riunioni di partito. Chiuso dentro quelle mura sacre si potevano fare meraviglie senza sentirsi schiacciati dalle pressioni esterne.

Infine c’era l’aspetto sociale: nel buio dei corridoi abbandonati dal tempo risiedeva l’anima collettiva del popolo. Ogni pianterreno rendeva omaggio non solo ai geni morti del dramma ma anche a quelli viventi; gli artisti che si battevano contro la corrente del conformismo grigio per portare messaggi d’amore e lotta solidale. Chiudere quei battenti significava proteggere quell’irruenza creativa da un mondo sempre troppo occupato a etichettare tutto in modo sterile come “cultura” o “intrattenimento”. Ildebrando voleva mantenere intatta quell’autenticità da mercato delle pulci artistico.

E così ogni sera, quando finalmente accostava l’ultima porta con determinazione rituale — clank! — il custode teatrale sorrideva pensando a quello che aveva realizzato nonostante il clamore fuori. Dentro quel luogo sacro regnavano calma e sogno: qui si sarebbe ricominciato anche domani.
Subito dopo spegneva le ultime luci cominciando ad ammirare la bellezza spettrale della sala vuota; persino i fantasmi applaudirono quello spettacolo intimo di fronte ad un momento di riflessione globale sull’esistenza umana: chiuso sì… ma solo fisicamente!

E mentre procedeva con passo lieve sul pavimento scricchiolante come rime perdute nel vortice del tempo, prima di salire le scale che lo conducevano nel suo alloggio di servizio, diede un’ultima occhiata alla porta dell’ingresso palcoscenico e disse: “Ecco fatto! Ora tutto può accadere.”

A cura di Marco Benazzi editorialista – Foto ImagoEconomica

Editorialista Marco Benazzi

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