GARI ALLEN

“La dolorosamente scomparsa di Geri Allen, una delle figure più influenti nel pianismo jazz contemporaneo, rende neccessario ripercorrere un’intensa carriera che ha sempre saputo imboccare percorsi inaspettati, ma profondamente logici. Capita di rattristarsi quando muore un grande musicista. La morte di Geri Allen ci rattristò ancora di più perché la pianista era ancora giovane (aveva compiuto da poco sessant’anni, per l’esattezza il 12 giugno scorso, il 2017 […]”.
“[…] Perché ci ritornano in mente le note di That Girl, una magnifica versione del brano di Stevie Wonder che Geri aveva deciso di incidere in un album del 2013, “Grand River Crossing“: una sintesi del suo concetto di musica che pescava nella grade tradizione per andare oltre, alla ricerca di qualcosa che, dopo lunghi peregrinazioni, torna a riaffermare la centralità dell’Africa del blues. In quello stesso album la pianista rendeva omaggio a Detroit, nel cui sobborgo di Pontiac era venuta al mondo, e assieme al suo mentore, il veterano trombettista Marcus Brlgrave, produceva in assolo l’intensità struggente.

Perché Geri Allen è stata una delle grandi donne del jazz moderno, un’artista che ha rimarcato la componente femminile di questa musica, la sua sensualità, il suo sentimento più romantico sfatando, se c’è ne fosse ancora bisogno, il luogo comune che il jazz è una musica che quasi sempre si declina al maschile. L’abbiamo potuta ascoltare più volte dal vivo e i ricordi che abbiamo di lei, oltre a quello della sua musica – mai banale e sempre intensa – e del suo modo di confrontarsi con il pianoforte usando uno stile personalissimo percussivo, ma allo stesso tempo lirico, tracciano l’immagine di una donna di grande bellezza, elegante, dal portamento fiero, di poche parole ma di forte comunicativa musicale.

All’inizio degli anni Novanta Geri Allen apparve spesso in Italia, e a Bari – la città di chi scrive (Nicola Gaeta) – inaugurò un jazz club (Il Strange Fruit) con un concerto del trio che gestiva assieme a Charlie Haden e Paul Motion. In quel periodo Geri era incinta: all’epoca era sposata con il trombettista Wollace Roney, dal quale in seguito finirà per divorziare. I tanti spettatori che ebbero la fortuna di assistere quella serata si resero subito conto, e c’è chi ne parla ancora oggi, che quella musica era destinata a lasciare il segno nella memoria collettiva. Ma Geri Allen, come all’epoca non tutti sapevano, era sulla scena quasi da una decina d’anni. I più attenti si erano fatti incuriosire dalle frequenti citazioni, sulle riviste specializzate, di un acronimo – M-Base – concepito dalla fertile mente di Steve Coleman. Il sasdofonista di Chicago, intento a cercare un sostegno teorico alla sua esigenza di dare nuove regole all’improvvisazione, celava dietro tale acronomino un apparentemente enigmatico “Macro-Basic Array of Structured Extrmporizations“, che negli anni avrebbe tentato di spiegare con rosposte spesso più oscure della domanda di partenza (chi voglia cimentarsi con l’ardita dialettica colemaniana può comunque provare sul sito internet dell’artista: m-base.com/What-is-m-base)[…]”. “[…] Si trattava di un movimento noto come risposta da parte dei giovani musicisti di Brooklyn (e soprattutto del quartiere di Bedford – Stuyvesant, abbreviato spesso in Bed-Stusy) alla rapidissima elevazione di Wynton Marsalis allo status di icona del jazz e al suo già latente conservatorismo. M-Base nacque da un confronto tra Steve Coleman e il cornettista Graham Heynes (figlio di Roy) e, a metà anni Ottanta, seppe raggiungere un’immediata popolarità decidendo di non chiudersi in una torre d’avorio ma scendendo in strada a trarre ispirazione della realtà quotidiana. M-Base fu una scuola di musica e di vita, un laboratorio, un’orchestra aperta che ribadiva la priorità del ruolo della blackness nella missione artistica di artisti destinati, quasi tutti, a scrivere di lì a poco pagine importanti del jazz contemporaneo […]”. “[…] Al pianoforte e alle tastiere sedeva quasi sempre Geri Allen. Ma per lei M-Base fu un momento di transizione, per quanto basilare, di un lungo percorso musicale.

GERI ALLEN

Il suo stile pianistico rendeva già un forte omaggio all’indennità percussiva di Cecil Taylor e di Thelonious Monk; eppure come sempre accade nel jazz, era la stratificazione di una serie di influenze che partendo dalle collaborazioni con Steve Coleman e con il flautista James Newton rendeva ragione di linee intricate e spigolose ma anche di momenti di grande romanticismo. Il suo pianismo è stato amore per la drum thing della musica africana ma anche attenzione alle note “non suonate” e ai silenzi di Count Basie oppure alle coloriture tonali di Duke Ellington. Poche volte come in Geri Allen la tradizione e l’avanguardia hanno saputo convivere l’una accanto all’altra: i suoi fraseggi erano liberi e scorrevoli, sia quando suonava all’interno della struttura sia quando dava l’impressione di volerne uscire. La sua grande maestria ritmica e armonica le consentiva di suonare figurazioni nel registro grave e ostinati di grande originalità utilizzando modulazioni metriche, spostamenti ritmici e dissonanze di notevole effetto.

Il tutto era caratterizzato da una spiccata sensibilità per le radici africane del jazz e della musica nera. Qualcuno ha anche paragonato il suo pianoforte a una m’bira, l’idrogeno africano da cui è poi derivata la Kalimba, e questo lascia comprendere l’inclinazione percussiva del suo stile. Non è un caso che di fosse pensato di farla interagire, come sarebbe accaduto all’Orto Botanico di Milano, con altri due giganti dello strumento McCoy Tyner e Graig Tomborn, due generazioni a confronto con lei a rappresentare il filo di congiunzione. Ed è un grande peccato non avere potuto assistere a un evento cosi rilevante. Molti pianisti moderni recano oggi la sua influenza in particolare Vijoy Iyer, uno dei pochi ad aver saputo interiorizzare l’estetica M-Base nella propria musica e ad aver spinto ancora più avanti la sintesi tentata da Steve Coleman. Riassumere il percorso artistico di una musicista così influente e impresa ardua. Il viaggio di Geri era iniziato molto presto, a sette anni, sotto la guida di Marcus Belgrave. Dopo gli studi a Detroit e una laurea in etno-musicologia con il sassofonista Nathan Davis si trasferì a New York per prendere lezioni da Kenny Barron. Nella Big Apple fu notata da Oliver Lake, Lester Bowie e Joseph Jarman; fu quest’ultimo a farla debuttare su disco nel 1983, con l’album “Inheritonce”. Entrò quindi nel collettivo M-Base, con il quale incise svariati (” An The Edge Of Tomorrow”, ” Motherland Pulse”, “Sine Die””). Nel frattempo, giunta in Europa con il gruppo di James Newton, aveva già esorditato come leader con “The Printmakers” (Minor Music 1983, con Anthony Cox e Andrew Gyrelle). Accumolo poi numerose opposizioni di Lake Pheeroon AkLaff, Woody Show, Franco Ambrosetti e divenne richiestisdima da mudicisti di fama come Ralph Peterson, Dewey Redman, Charlie Haden e Paul Motion.

In seguito suonò con Betty Carter e compositore la Suite Sister Leola, An American Portrait du commissione del Jazz At Lincoln Center. Fu chiamata, nel 1994, a far parte del quartetto acustico di Ornette Coleman, che nel 1996 le restituì la cortesia du un album per la Somethin’ Else intitolato “Eyes… In The Black Of Your Head“. Nello stesso anno vinse il prestigioso Jazzpar Prize e, per l’occasione , scrisse la Suite “Some Apects Of Water”, poi incisa per la Storyville. Ovviamente Geri ha suonato e registrato spesso con l’allora marito, Wallace Roney, su dischi importanti come “Along Come Jones” (1997, con Lonnie Plaxico al contrabbasso) e “The Gathering (1998, con Robin Eubanks al trombone). Suonò anche con Charles Lloyd, che di lei serba un affettuoso ricordo nel magnifico e rarefatto “Lift Every Voice” (2002 ECM). Ma vanno citati ancora gli altri tre Minor Music, “Home Grown”, “Open All Sides In The Middle”, “Twylight“; poi “The Nurturer” inciso per la Blue Note nel 1990 con Marcus Belgrave e Kenny Garrett, “Zodiac Suite: Revisted”, dedicato a Mari Lou Williams – che la pianista interpretò nel film di Robert Altman, Kansas City – con Buster Williams, Billy Hart e Andrew Cyrille, “A Child is Born” con Dave Holland e Jack DeJohnnette e l’ultimo “Perfection”, in trio con David Murray e Terri Lyne Carrington. Background pianistico di alto livello, tocco e tecnica sopraffina uno stile, come dicevamo prima, capace di passare da dolcezze estreme a seguenze aggressive non privo di tentazioni sperimentali. Dopo la scomparsa di Kenny Kirkland e prima dell’arrivo di Brad Mehldau, Gerry Allen è stata il riferimento più importante del piano jazz contemporaneo. Sentiremo la sua mancanza, e la sentiremo soprattutto perché lei si allontana un modo di intendere il jazz, un approccio che travalica le definizioni e i generi per esplorare la musica nella sua essenza, nella sua radice più profonda. La sua è la generazione che si è formata ascoltando James Brown, Stevie Wonder Kool & The Gang e tutta la musica nera a cavallo tra gli anni Sessanta e i Settanta[…]”.

(Il testo virgolettato è stato tratto dalla rivista Musica Jazz- Geri Allen: con lei hanno saputo convivere tradizione e innovazione – autore Giuseppe Ballaris – marzo 2023 – Musica Jazz nel numero 868).

L’artista scompare il 27 giugno del 2017 per i postumi di un tumore, a Philadelphia nello Stato della Pennsylvania.

Se ne va così un interprete che ha saputo portare nella musica nera di oggi un rinnovamento, rinnovando gli stilemi della grande epopea dei pianisti celebri e portando avanti anche una ideologia del piano moderno e andando a scrutare tecniche complesse oltre i suoi precessori.

A cura di Alessandro Poletti – Foto Repertorio

Redazione IL POPOLANO

La Cesenate

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