Premessa: ll cadavere di Aldo Moro fu trovato nel bagagliaio di una Renault 4 rossa il 9 maggio 1978, cinquantacinque giorni dopo il suo sequestro. La polizia rinvenne il corpo del politico rannicchiato sotto una coperta, con undici proiettili nel cuore. Il luogo dove fu lasciato era strategico: si trovava a 150 metri dalla sede del Partito comunista e a duecento da quella della Democrazia cristiana, il suo partito. Ancora oggi molti dubbi ed enigmi avvolgono l’omicidio più eccellente dell’Italia moderna.
 
Articolo ripreso da  “STORICA National Geographic”
 
Nove del mattino del 16 marzo 1978: L’agguato.
Quel giorno il Parlamento avrebbe votato la fiducia al quarto governo di Giulio Andreotti, che per la prima volta avrebbe avuto l’appoggio del Partito comunista italiano. Quattro membri delle Brigate rosse, un’organizzazione terroristica rivoluzionaria, con indosso delle uniformi di piloti Alitalia, tesero un’imboscata al presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro e alla sua scorta. Durante la sparatoria i terroristi assassinarono i cinque membri della scorta e sequestrarono il politico per condurlo in un nascondiglio all’interno della capitale. La notizia stravolse il Paese, che spontaneamente scese in piazza a manifestare.
L’agguato di via Fani fu definito un’operazione «geometrica» e presenta ancora diversi interrogativi. Durante lo scontro a fuoco i terroristi abbatterono i cinque uomini della scorta senza arrecare alcun danno a Moro, anche se in seguito l’autopsia avrebbe rilevato una ferita alla natica che forse fu prodotta nel corso dell’agguato. La precisione dei colpi fece dubitare del fatto che a manovrare le armi fossero stati dei giovani con scarsissima formazione militare. Dalla prime indagini sembrò emergere che quarantanove dei novantuno spari effettuati provenissero da un’unica arma e fu suggerito che si trattasse di un membro della ‘ndrangheta connesso ai servizi segreti. In seguito si chiarì che i quarantanove spari venivano sì dallo stesso tipo di arma, ma da due esemplari diversi. Un testimone affermò anche di aver sentito gridare degli ordini in una lingua straniera e altri dichiararono di aver visto fuggire due uomini a bordo di una moto Honda.
Ci furono altri due elementi che sollevarono sospetti. In primo luogo, in via Fani, il luogo del sequestro, quel giorno transitò un agente dei servizi segreti, che in seguito dichiarò di essere passato di lì per andare a casa di un amico da cui era invitato a pranzo. In secondo luogo, quella mattina nell’area della sparatoria ci fu una caduta repentina delle linee telefoniche, che però fu probabilmente dovuta al sovraccarico di chiamate provocate dall’evento.
Per quasi due mesi, più precisamente cinquantacinque giorni, nella società italiana si scatenò un intenso dibattito sulla possibilità o meno di negoziare con i terroristi. Durante il sequestro lo stesso Moro ebbe modo di comunicare con le alte sfere politiche del Paese. Anzi, il 30 marzo i suoi rapitori fecero pubblicare una lettera rivolta a Francesco Cossiga, allora ministro degli interni. Nelle missive inviate ai suoi compagni di partito Moro rinfacciava il loro rifiuto di trattare per la sua liberazione, un atteggiamento «influenzato», secondo le sue parole da «altre persone». Secondo il giornalista catalano Enric Juliana, «il sequestro di Moro si trasformò in una tragedia greca: l’ansia di sopravvivenza umana contro la ragion di stato». Solo il Partito socialista italiano si dichiarò favorevole a esplorare la via della trattativa.
Il 25 marzo le Brigate rosse emisero un comunicato in cui annunciavano la loro intenzione di «accertare le dirette responsabilità di Aldo Moro per le quali, con i criteri della giustizia proletaria, verrà giudicato». Il termine «giudicato» scatenò l’allarme in tutte le istituzioni e agenzie di sicurezza. Moro infatti era stato ministro degli esteri e due volte capo di governo, e dunque disponeva d’informazioni confidenziali e conosceva segreti di stato che avrebbero potuto riguardare servizi segreti e governi di altri Paesi.

I quattro brigatisti che, travestiti da assistenti di volo, spararono sulla scorta: Valerio Morucci, Raffaele Fiore, Prospero Gallinari e Franco Bonisoli

I quattro brigatisti che, travestiti da assistenti di volo, spararono sulla scorta: Valerio Morucci, Raffaele Fiore, Prospero Gallinari e Franco Bonisoli

Foto: Pubblico dominio.

Il sequestro del presidente della DC tenne sotto scacco tutte le potenze mondiali. In quel momento in Italia si stava giocando una partita che avrebbe potuto cambiare il corso della politica statunitense in Europa finendo per coinvolgere i servizi segreti americani e lo stesso Vaticano. Tutto ciò che riguardava il caso Moro sembrava intorbidito, e anche per questo fin dal primo momento l’opinione pubblica diffidò degli scarsi sforzi del governo per trovare i sequestratori e liberare il politico.
Il 18 aprile la vicenda prese una svolta inaspettata. Apparve un comunicato in cui si annunciava «l’avvenuta esecuzione del presidente della DC Aldo Moro, mediante suicidio». Si dichiarava inoltre che il suo corpo giaceva nel lago Duchessa, vicino a Cartore (in provincia di Rieti). Dopo la commozione iniziale e due giorni di ricerche infruttuose le Brigate rosse inviarono un nuovo comunicato in cui negavano la paternità del messaggio precedente e la attribuivano a «specialisti della guerra psicologica». Per dimostrare la veridicità delle loro affermazioni, nello stesso comunicato allegavano una fotografia di Moro con in mano la Repubblica del giorno prima.
Per tutto il tempo che rimase in ostaggio, Aldo Moro fu imprigionato in una stanza nascosta dietro la libreria di un appartamento di via Montalcini 8 a Roma, sorvegliato dal dirigente della colonna romana, Mario Moretti, e da Prospero Gallinari, Germano Maccari e Anna Laura Braghetti. Martedì 9 maggio 1978 Franco Tritto, assistente di Moro, ricevette una telefonata in cui lo si informava che avrebbe trovato il corpo dell’«onorevole» in via Caetani. Il cadavere fu scoperto verso le due di pomeriggio nel bagagliaio di un’auto, crivellato di proiettili. Con questa crudeltà si concludeva il lungo sequestro e si apriva la strada a interrogativi che ancora oggi non trovano risposta.
Fino a pochi anni fa si riteneva che l’autore materiale dell’assassinio di Aldo Moro fosse Prospero Gallinari, ma nell’ottobre 1993 Mario Moretti confessò di essere stato lui: «Non avrei permesso che lo facesse un altro», affermò. Altre circostanze addensarono il mistero: durante l’autopsia fu ritrovata della sabbia sui vestiti di Moro e anche qualche moneta nel suo portafogli. In ogni caso, in nessuno dei cinque processi celebrati contro i tredici brigatisti coinvolti fu possibile chiarire tutti i punti più oscuri dell’investigazione. Due brigatisti non furono mai catturati e su uno di questi ricadde il sospetto che potesse trattarsi di un infiltrato dei servizi segreti.
Nonostante i 13mila agenti di polizia mobilitati, le 40mila perquisizioni domiciliari e i 72mila blocchi stradali non sorprende che, nei quasi due mesi in cui si prolungò il sequestro di Aldo Moro, la polizia non abbia eseguito alcun arresto. Non si sa neppure che fine abbia fatto la maggior parte degli scritti redatti dal presidente durante la sua prigionia. Alcuni vennero alla luce, seppure lentamente. Le accuse rivolte ai suoi compagni di partito erano molto dure: «Il mio sangue ricadrà su di loro», scrisse. Sua moglie, Eleonora, che non perdonò mai Giulio Andreotti, Francesco Cossiga e Benigno Zaccagnini (segretario della DC), non permise che si celebrasse un funerale di stato. Durante l’angosciosa prigionia era riuscita a fare in modo che papa Paolo VI, amico personale di Moro, scrivesse una lettera alle Brigate rosse per chiedere che le rimettessero in libertà il marito. Invano
Ancora oggi, la “giustizia” brancola nel buio! Vergogna!
A cura di Pier Luigi Cignoli editorialista – Foto Imagoeconomica
Editorialista Pier Luigi Cignoli

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui