
Amici lettori, nel ricordare la tragedia che si consumò l’11 settembre del 2001 a New York, nel 2011, in occasione del Natale, scrissi un pensiero di augurio per un futuro migliore, un pensiero che oggi a distanza di 22 anni, dedico a Voi tutti e alla Redazione del “Il Popolano” di cui mi onoro far parte.
Natale 2011 – John o Paul o Robert o qualunque altro fosse il suo nome poco importa.
Era uno dei tanti newyorkesi vittime dell’atto di terrorismo di quel maledetto 11 Settembre 2001 compiuto dai seguaci di Osama Bin Laden, leader di Al-Qaida.
Una lunga processione avanzava lentamente: migliaia di fiaccole accese, un canto solenne, una preghiera!
Era la notte di Natale, un Natale diverso dai precedenti.
Un dolore profondo, una velata speranza di un futuro di pace, volti rigati dalle lacrime, sguardi vuoti, cuori sanguinanti accumunavano quelle mille e mille figure che camminavano lentamente verso la Cattedrale per ascoltare la Santa Messa, per cercare nella fede conforto, amore e perdono.
In prossimità delle transenne che ancora isolavano il “ground zero”, la zona dove si ergevano maestose le torri gemelle, simbolo indiscusso di New York City, di Manhattan, della forza creatrice e dell’ingegno dell’uomo, lasciò tutti dileguandosi nel buio della notte.
Si ritrovò solo, in quel grande, immenso spazio vuoto, cosi come aveva sognato, ponderato, deciso e atteso nei giorni precedenti.
Teneva stretta tra le dita una rosa blu e il suo cuore martellava di rabbia, sofferenza, dolore, odio.
Si fermò ascoltando il tetro silenzio che lo circondava, che lo attanagliava come una morsa.
Depose il fiore ai piedi della croce, una semplice nuda croce di legno posta a ricordo delle vittime di quella strage, di quella carneficina voluta dal fanatismo di una “belva umana”, Osama Bin Laden, che nella sua smisurata pazzia si considera e sia auto elegge giustiziere degli uomini motivando le sue atrocità come profeta di una guerra santa, dell’avvento e della supremazia mussulmana nel mondo.
Dopo qualche minuto di raccoglimento, parlò a bassa voce con sé stesso.
“Amore mio, sto camminando sul baratro di questa mia inutile vita, basterebbe un soffio di vento e tutto, tutto, tristezza, dolore, amarezza svanirebbero precipitando con me in una fine desiderata. Corrono nella mia mente le immagini dei nostri giorni felici, tornano pressanti sogni e progetti ma io non riesco a farmi una ragione di quanto è successo, non trovo la forza di guardare avanti, al domani, ho la sensazione che ogni energia sia spenta, esaurita. Il mio cuore si è indurito come pietra lavica, sono privo di emozioni, i miei occhi non hanno più lacrime, un senso di solitudine infinita colma i miei pensieri, il mio essere.
A nulla sono servite le parole di conforto dei nostri amici, a nulla è servito pregare: solo odio e vendetta sono il mio pane quotidiano! Ho guardato più volte verso il cielo, ho chiesto più volte il perché di tutto questo. Chi incolpare veramente? Forse siamo noi stessi gli autori, gli esecutori, i protagonisti di questa tragedia umana? Dove trovare una risposta, dove cercare la verità: forse Dio ci ha dimenticati?
Amore mio, tu sei lassù, tra le stelle dell’universo, forse mi stai ascoltando, forse stai vedendo e vivendo il mio dolore, il mio tormento, la passività che si fa gioco della mia anima.
Mi ritornano alla mente le tue parole quando, orgogliosa del tuo lavoro, mi raccontavi che dal 90mo piano della tua torre avevi il mondo ai tuoi piedi o che spingevi il tuo sguardo lontano, oltre la Statua della Libertà che segna il confine tra la terra e il mare, verso l’orizzonte, verso l’infinito.
Senza di te, senza il tuo amore mi resta soltanto il vuoto, il nulla!
Ascoltami, ti supplico, ho bisogno di aiuto, di un gesto, di una parola, di qualcosa che mi possa ridare una ragione per credere, per vivere”
Piangendo si inginocchiò di fronte alla croce.
Le immagini di quella giornata terrificante si riproposero alla sua mente, sentì il fragore dell’impatto mortale, percepì in bocca il sapore acre, amaro della polvere che invadeva ogni luogo, risentì il suono delle sirene che squarciavano l’aria, riudì le grida di dolore dei feriti, delle persone in fuga, rivide lo sgomento e l’incredulità negli occhi e nei volti della gente. Riemerse in lui la sensazione di essere ancora lì, attonito, sbigottito, impotente di fronte a tanta rovina, preso nel vortice della tragedia umana che si stava consumando tutt’intorno.
Si voltò di scatto, una mano aveva sfiorato la sua spalla!
Retrocesse di qualche metro e con il cuore in gola fissò nel buio cercando chi aveva spiato quel suo momento di dolore.
Una figura di donna, con il capo coperto da un velo, era lì, lo fissava, immobile, statuaria.
I loro sguardi si incrociarono, tesi, interrogativi.
“Mi chiamo Karis, vivo a New York da dieci anni, sono Afgana. Perdonami se ho interrotto il tuo raccoglimento. Anch’io sono cristiana e come te, in questa notte sacra, volevo parlare con Dio, vicino a questa semplice e nuda croce che segna la vergogna del mio paese, della mia gente, dei miei fratelli. Ho ascoltato pur non volendo le tue parole, ho percepito il tuo dolore, la tua rabbia, il tuo odio. Come te sono rimasta sola e provo una profonda vergogna per l’accaduto, percepisco l’ostilità delle persone che mi circondano e i loro sguardi mi fanno sentire sporca, responsabile, colpevole! Immensa la mia gioia quando fui accolta in questa città: ero finalmente una donna libera, capace di esprimere il mio pensiero senza condizioni o paure, di manifestare la mia voglia di vivere, di identificarmi, di realizzarmi. Ora mi sento persa, abbandonata, deserta, rocciosa e spigolosa come la mia terra, credo che ci vorranno anni per placare l’odio e far rinascere una speranza di pace e di unità tra i nostri popoli”
I suoi occhi brillavano nel buio, le lacrime rigavano il suo volto, la sua voce era rotta dal pianto, un pianto sincero, sommesso, profondo.
“Chiedo perdono a Dio, chiedo perdono a te, per me stessa, per la mia gente che non posso, che non riesco a rinnegare. Scusami ora anch’io vorrei deporre i miei fiori e recitare una preghiera”
Continuava a fissarla, incapace di una reazione, di un gesto mentre la sua mente urlava: vattene, vattene via!
Una lacrima gli inumidì le palpebre, il suo cuore riprese calore.
Allungò una mano verso quella donna, la cui colpa era solo quella di essere Afgana, le dita si sfiorarono, si unirono e perdendosi nei suoi occhi sussurrò. “Pace”
Le campane suonarono rinnovando la nascita di Nostro Signore, un cantò si levò in ogni luogo, New York City si illuminò nello splendore di quella notte.
Trattenendola disse: “Potremmo essere noi, sì proprio noi a ricominciare, a ridare senso a questa vita”
John o Paul o Robert o chiunque altro fosse la strinse a sé, poi, camminando lentamente, scomparvero nella notte.
A cura di Pier Luigi Cignoli – Foto ImagoEconomica